DOMENICA
16 DICEMBRE alle ORE 18
in via Baida 12 (ex Arena Lo Baido)
La Biblioteca popolare "Salvatore Barra" organizza la presentazione del libro:
"La chiamata- storia di un ragazzo che non sapeva sognare"
di Egle Palazzolo
in via Baida 12 (ex Arena Lo Baido)
La Biblioteca popolare "Salvatore Barra" organizza la presentazione del libro:
"La chiamata- storia di un ragazzo che non sapeva sognare"
di Egle Palazzolo
Ne discutono con
l'autrice:
Antonio Neri, Biblioteca popolare "Salvatore Barra"
Dario Carnevale, editore Istituto Poligrafico Europeo
Stefania Savoia, redattrice Mezzocielo
LA MAFIA matriarcale
Cinque anni avevo, signor giudice, e guardavo le pecore, ogni mattina,
al pascolo. Ci andavo con mio pare. Mi svegliavano che ancora non si vedeva
giorno. Mi lavavo la faccia e mi bevevo il latte caldo che mi preparava mia
madre. Ci mettevo dentro i pezzi del pane rimasto il giorno prima e lei mi
diceva «Spingilo bene, ammollalo che si fa dolce e ti piace. «Poi mi metteva il
fasciacollo di lana fatto da lei, a strisce colorate, che prima era di mio
fratello grande che ormai aveva altre cose da fare e con noi ci stava poco: L'
altro fratello, quello prima di me, alle pecore non ci badava più. Rimanevo io
solo, per aiutare mio padre a tirare avanti col pascolo e la semina di qualche
pezzo di terreno che era come fosse suo. Ma non per venderlo o per costruire, solamente
per coltivarci qualche cosa e farci qualche lavoretto.
Mio padre ci aveva alzato con un poco di mattoni e qualche telaccio per tetto, una specie di camera e ci aveva pure fatto arrivare l' acqua: Diceva che se pioveva potevamo ripararci noi e magari le pecore. Ma era tempo buono quasi tutte le giornate e a me, mezzo addormentato com' ero, mi piaceva essere sveglio quando il sole mi scaldava e mi faceva vedere le foglie degli alberi tutte belle e lucenti. Allora mi toglievo la giacchetta, la sciarpa di lana. Mi accucciavo meglio contro il muretto che faceva di confine... Incipit del libro di Egle Palazzolo La chiamata (edizioni dell' Istituto Poligrafico Europeo, 64 pagine, 10 euro) Nella collana "I contesti" esce, per i tipi dell' Istituto Poligrafico Europeo, un atipico racconto lungo di Egle Palazzolo, giornalista e scrittrice impegnata su diversi fronti, da quello civile a quello letterario. Laconico e quasi camusiano il titolo: La chiamata. Vago e un po' da ballata il sottotitolo: Storia di un ragazzo che non sapeva sognare. La postfazione del procuratore Pietro Grasso ci suggerisce finalmente una collocazione mafiologica. Che è davvero il nucleo della narrazione, ma non esaurisce l' ambito tematico di un' operetta (morale) in cui s' intrecciano pirandellismo ed esistenzialismo. Libro anomalo, dunque, e non solo rispetto alla produzione dell' autrice, ma soprattutto rispetto al filone agiografico della narrativa antimafia. L' anomalia, che è già di per sé un pregio, consiste in primo luogo in una sua problematica classificazione. Con un forte impianto teatrale, ma con alcune aperture dello sguardo di taglio cinematografico, il testo sembra scritto per essere ascoltato, in primo luogo, e per tradursi in immagini (che potrebbero anche essere i quadri di un cuntu ). A quest' effetto anti-letterario contribuisce lo stile ellittico e scabro della Palazzolo, la scelta strutturale di un dialogo di pure voci, spogliate di ogni descrittivismo e ridotte a pura testimonianza orale di una vita nuda. Non meri simboli, tuttavia. Forse teoremi, sebbene non risolti e magari irrisolvibili, ché il mafioso, da un lato, sembra volersi disperatamente sottrarre alla sua tipologia, e il giudice, dall' altro, tende a volte dissolversi nell' eco di una coscienza monologante. A prima vista si direbbe un libro a tesi. Solo che non è ben chiaro quale sia la tesi (e anche questo è di per sé un pregio). Atroce parabola sullo schiavo arbitrio e sulla fatalità, ovvero sull' impossibilità di sfuggire ai vincoli naturali e sociali, il racconto ha per protagonisti un assassino e il suo giudice, che si fronteggiano durante un interrogatorio, quasi alla stregua di un peccatore e del suo confessore. Tuttavia non c' è pentimento, né perdono, né espiazione. La condanna, prima che legale o morale, è tutta in un' incapacità di comprendere, nel divario incolmabile tra chi pensa di poter scegliere tra il bene e il male e chi invece se ne ritiene incapace, non riuscendo perciò a provare rimorso, ma solo un senso di vuoto e di coercizione. L' imputato è Gaspare, un giovane appartenente a una famiglia mafiosa di bassa forza, da cui siè sempre sentito esclusoa causa della sua indole diversa. Detesta infatti le armi e la violenza. A casa è ritenuto babbu per questa sua mansuetudine soccombente che fin da piccolo gli ha fatto subire il disprezzoe l' ostracismo dei compagni di gioco. Una sottile linea grigia lo separa dai suoi: dal padre che accetta il carcere con omertoso orgoglio; dalla madre, figura tetragona e ieratica del matriarcato mafioso, che non piange mai e comunica col regno dei morti; dai fratelli e dai cugini, perfettamente integrati nella logica delle faide e del delitto. Il magistrato (in cui forse c' è una reminiscenza del metafisico inquisitore del Malacarne di Giosuè Calaciura, pur senza il suo immaginifico delirio barocco) pone domande fondate su una ratio intraducibile a cui il reo, ancorché confesso, non sa rispondere se non nei modi rassegnati e inconsapevoli di chi ha dovuto accettare la propria immutabile sorte. Allontanato (come in una delle funzioni fiabesche di Propp) per rifarsi una vita in Argentina, Gaspare sente che l' aereo che lo porta verso un altrove di speranza è un secondo «ventre di madre». L' approdo è il parto. La rinascita. La vita nuova. E nel nuovo mondo trova l' amore, la dignità del lavoro, il piacere dell' onestà, il sogno fugace di un' esistenza normale. Un grazia e un' utopia. O una telenovela senza lieto fine. Ma una "chiamata", una cartolina non meno imperiosa di quelle di leva, gli ricorda di essere il milite ignoto e sacrificabile di una guerra infinita. Non c' è libertà né rimedio per chi appartiene a quella "cosa tinta" che è la Sicilia dei disgraziati, dei senza scampo. Come il Garibaldi che leggeva da piccolo, Gasparino, l' irredimibile pastorello sturdutu e scantatu, come quello del presepe, dovrà dire obbedisco. Ma senza poter essere un eroe, né un martire. Una sorta di pessimismo atavico, genetico, governa questa storia geometrica, pietosa e insieme inesorabile, che tuttavia Palazzolo dedica in esergo a quei pochi felici che «sono riusciti a non fare di Cosa nostra cosa loro» negando e recidendo gli stessi legami familiari. Il dilemma resta comunque intatto: è possibile sottrarsi al peccato originale, a quella seconda pelle che è la mafia? Grasso, nella sua nota, lo definisce un «quesito inquietante» e adduce alcuni esempi a smentita di un' invincibile forza del destino, esortando i giovani all' ottimismo eretico della volontà. Ma più che dal "politicamente corretto" Egle Palazzolo sembra attratta dall' irresistibile emblematicità del suo personaggio, capro espiatorio-carnefice in cui convivono candore e turpitudine nel paradosso sconcertante di una colpevole innocenza.
Mio padre ci aveva alzato con un poco di mattoni e qualche telaccio per tetto, una specie di camera e ci aveva pure fatto arrivare l' acqua: Diceva che se pioveva potevamo ripararci noi e magari le pecore. Ma era tempo buono quasi tutte le giornate e a me, mezzo addormentato com' ero, mi piaceva essere sveglio quando il sole mi scaldava e mi faceva vedere le foglie degli alberi tutte belle e lucenti. Allora mi toglievo la giacchetta, la sciarpa di lana. Mi accucciavo meglio contro il muretto che faceva di confine... Incipit del libro di Egle Palazzolo La chiamata (edizioni dell' Istituto Poligrafico Europeo, 64 pagine, 10 euro) Nella collana "I contesti" esce, per i tipi dell' Istituto Poligrafico Europeo, un atipico racconto lungo di Egle Palazzolo, giornalista e scrittrice impegnata su diversi fronti, da quello civile a quello letterario. Laconico e quasi camusiano il titolo: La chiamata. Vago e un po' da ballata il sottotitolo: Storia di un ragazzo che non sapeva sognare. La postfazione del procuratore Pietro Grasso ci suggerisce finalmente una collocazione mafiologica. Che è davvero il nucleo della narrazione, ma non esaurisce l' ambito tematico di un' operetta (morale) in cui s' intrecciano pirandellismo ed esistenzialismo. Libro anomalo, dunque, e non solo rispetto alla produzione dell' autrice, ma soprattutto rispetto al filone agiografico della narrativa antimafia. L' anomalia, che è già di per sé un pregio, consiste in primo luogo in una sua problematica classificazione. Con un forte impianto teatrale, ma con alcune aperture dello sguardo di taglio cinematografico, il testo sembra scritto per essere ascoltato, in primo luogo, e per tradursi in immagini (che potrebbero anche essere i quadri di un cuntu ). A quest' effetto anti-letterario contribuisce lo stile ellittico e scabro della Palazzolo, la scelta strutturale di un dialogo di pure voci, spogliate di ogni descrittivismo e ridotte a pura testimonianza orale di una vita nuda. Non meri simboli, tuttavia. Forse teoremi, sebbene non risolti e magari irrisolvibili, ché il mafioso, da un lato, sembra volersi disperatamente sottrarre alla sua tipologia, e il giudice, dall' altro, tende a volte dissolversi nell' eco di una coscienza monologante. A prima vista si direbbe un libro a tesi. Solo che non è ben chiaro quale sia la tesi (e anche questo è di per sé un pregio). Atroce parabola sullo schiavo arbitrio e sulla fatalità, ovvero sull' impossibilità di sfuggire ai vincoli naturali e sociali, il racconto ha per protagonisti un assassino e il suo giudice, che si fronteggiano durante un interrogatorio, quasi alla stregua di un peccatore e del suo confessore. Tuttavia non c' è pentimento, né perdono, né espiazione. La condanna, prima che legale o morale, è tutta in un' incapacità di comprendere, nel divario incolmabile tra chi pensa di poter scegliere tra il bene e il male e chi invece se ne ritiene incapace, non riuscendo perciò a provare rimorso, ma solo un senso di vuoto e di coercizione. L' imputato è Gaspare, un giovane appartenente a una famiglia mafiosa di bassa forza, da cui siè sempre sentito esclusoa causa della sua indole diversa. Detesta infatti le armi e la violenza. A casa è ritenuto babbu per questa sua mansuetudine soccombente che fin da piccolo gli ha fatto subire il disprezzoe l' ostracismo dei compagni di gioco. Una sottile linea grigia lo separa dai suoi: dal padre che accetta il carcere con omertoso orgoglio; dalla madre, figura tetragona e ieratica del matriarcato mafioso, che non piange mai e comunica col regno dei morti; dai fratelli e dai cugini, perfettamente integrati nella logica delle faide e del delitto. Il magistrato (in cui forse c' è una reminiscenza del metafisico inquisitore del Malacarne di Giosuè Calaciura, pur senza il suo immaginifico delirio barocco) pone domande fondate su una ratio intraducibile a cui il reo, ancorché confesso, non sa rispondere se non nei modi rassegnati e inconsapevoli di chi ha dovuto accettare la propria immutabile sorte. Allontanato (come in una delle funzioni fiabesche di Propp) per rifarsi una vita in Argentina, Gaspare sente che l' aereo che lo porta verso un altrove di speranza è un secondo «ventre di madre». L' approdo è il parto. La rinascita. La vita nuova. E nel nuovo mondo trova l' amore, la dignità del lavoro, il piacere dell' onestà, il sogno fugace di un' esistenza normale. Un grazia e un' utopia. O una telenovela senza lieto fine. Ma una "chiamata", una cartolina non meno imperiosa di quelle di leva, gli ricorda di essere il milite ignoto e sacrificabile di una guerra infinita. Non c' è libertà né rimedio per chi appartiene a quella "cosa tinta" che è la Sicilia dei disgraziati, dei senza scampo. Come il Garibaldi che leggeva da piccolo, Gasparino, l' irredimibile pastorello sturdutu e scantatu, come quello del presepe, dovrà dire obbedisco. Ma senza poter essere un eroe, né un martire. Una sorta di pessimismo atavico, genetico, governa questa storia geometrica, pietosa e insieme inesorabile, che tuttavia Palazzolo dedica in esergo a quei pochi felici che «sono riusciti a non fare di Cosa nostra cosa loro» negando e recidendo gli stessi legami familiari. Il dilemma resta comunque intatto: è possibile sottrarsi al peccato originale, a quella seconda pelle che è la mafia? Grasso, nella sua nota, lo definisce un «quesito inquietante» e adduce alcuni esempi a smentita di un' invincibile forza del destino, esortando i giovani all' ottimismo eretico della volontà. Ma più che dal "politicamente corretto" Egle Palazzolo sembra attratta dall' irresistibile emblematicità del suo personaggio, capro espiatorio-carnefice in cui convivono candore e turpitudine nel paradosso sconcertante di una colpevole innocenza.
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